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Soulevements

Perché correre nei campi?

[Tradotto da: https://lundi.am/Pourquoi-courir-dans-les-champs]

7 Novembre 2022

 

Movimento contro l’accaparramento dell’acqua.
Sabato 29, assalto rivoltoso di diverse migliaia di persone in occasione della mobilitazione vietata contro la costruzione di un mega-bacino.
Domenica 30, sabotaggio di un tubo sotto le telecamere. Partigiani di un certo eco-populismo con tendenze insurrezionali, gli organizzatori avevano promesso una manifestazione gioiosa e determinata, promessa mantenuta.
L’obiettivo era raggiungere il cratere del futuro bacino e ci sono riusciti.
Il sottoprefetto cerca di sorridere dopo gli eventi della giornata, sostenendo che i manifestanti sono stati respinti e l’occupazione del sito è stata bloccata. Ma la gendarmeria è stata effettivamente respinta, fila dopo fila. La probabilità che sia stata particolarmente incapace toglie la certezza di essere stati particolarmente bravi, ma l’assalto è stato continuo e non c’è stata un’ombra di esitazione per due ore e mezza.
Questa determinazione non solo era intensa e continua [1], ma è anche stata condivisa a un livello raramente raggiunto prima. Come dirlo? C’è stato un allineamento tattico dall’alto tra i partecipanti. Ciò testimonia almeno la possibilità di un allineamento strategico dall’alto.
Quali sono i discorsi che strutturano l’evento? Dei rappresentanti ambientalisti, danno il loro sostegno prima della manifestazione, in modo più o meno spontaneo. Uno di loro lascia il campo con la parola “crevure” [carogna, NdT] dipinta sulla sua auto, due volte. Il suo collega più radicale dice che sta pagando per la sua difesa di un’ecologia di governo, a scapito di un’ecologia di lotta. Lei stessa ha parlato nei giorni scorsi di “guerra dell’acqua” e ha decorato Rémi Fraisse con la medaglia di “primo morto”. Non c’è dubbio che la sinistra difenda la rivoluzione a titolo postumo.
Un leader trotskista nei giorni scorsi dichiara, tra gli applausi, che si deve porre la questione della violenza. La manifestazione dimostrerà che non si pone nemmeno più. Dopo la manifestazione, il Ministro dell’Interno “non esita a parlare di ecoterrorismo”,
lasciando per il futuro un margine di manovra semantico piuttosto ristretto. Uno “scivolone” del ministro, replica il numero 1 dei melenchonisti, che altrove invocano una polizia repubblicana (“La République, c’est moi”). Al Ministero degli Interni insistono con una risposta: non permetteranno nessuna ZAD a Sainte-Soline. Ma nessuno aveva posto la questione. Ci sono giornate che sembrano dotate
di parola, in grado di porre delle domande ad alta e intellegibile voce.
Perché correre nei campi, assaltare le linee della gendarmeria, prenderle in contropiede, debordarle, farle bruciare, passare attraverso i fossati e le siepi, gettarsi collettivamente, vecchi e giovani, attraverso tutto questo?
“Ve lo diciamo noi: è l’ostilità ai bacini”. Una cosa è il motivo invocato, che è centrale e dominante, un’altra è la meccanica della rivolta. Quando la rivolta mette piede su un terreno di lotta, è già in gioco qualcos’altro. Abbiamo attraversato le linee insieme, in barba al divieto, alla paura, in contraddizione con il nostro respiro, siamo passati tra le maglie di una rete destinata a stringersi; abbattendo le ultime barriere siamo scesi nell’area del Progetto, un’area devastata da un progetto civile tra milioni di altri, mettendo in fuga due elicotteri dopo aver attaccato i furgoni; successivamente abbiamo dovuto fuggire, siamo usciti sotto le granate Sivens, i colpi di LBD [granate esplosive per disperdere gli assembramenti NdT], nella solita atmosfera rarefatta, e abbiamo usato le stesse barriere per proteggere la ritirata. Sì, c’è qualcos’altro in gioco.
Tuttavia, la giornata assomiglia furiosamente a un atto mancato, sintomo di un’epoca: l’obiettivo è stato raggiunto, e l’obiettivo era vuoto. Come se si fosse tanto più capaci di impegnarsi quanto più l’impegno effettivo tende al grado zero. Si rallegreranno gli attivisti puri, per i quali la rivolta è essa stessa la propria fine. Altri blatereranno, facendo della lotta su una questione ultra-precisa una pietra miliare per l’avanzata rivoluzionaria. Ma che piaccia o no, la politica del passo dopo passo, quella del progressismo radicale, non ha mai posto altre questioni se non quelle che entrano nella logica del governo. E di fronte alla proliferazione di argomenti e alibi
riformisti, il radicale che non dice nulla, acconsente. Tutto accade come se, tra depressione e disorientamento, i rivoluzionari avessero essi stessi perso il filo, la voglia di rivoluzione, appena quattro anni dopo una spinta insurrezionale la cui eco si era diffusa in tutto il mondo. È difficile da ammettere. In realtà, la rivolta conosce un altro passo, come abbiamo detto, trasfigura il terreno dove mette piede, e non è quindi il vuoto che si raggiunge quando ci si organizza per l’offensiva, è semplicemente qualcosa di diverso da ciò che è stato annunciato, pianificato o verbalizzato in anticipo. Così, non si partecipa mai solo a una giornata di azione. Ogni
partecipazione politica implica una scelta di parte su ciò che si vuole far crescere partecipando. Questo può sembrare paradossale dopo una giornata in cui abbiamo marciato così bene, ma dobbiamo rompere con il modello del pedone o del soldato di fanteria come forma della soggettività politica. Un modello in cui si dice, per esempio, che i Soulèvements de la Terre sono i soldatini della Confédération
Paysanne [importante sindacato agricolo francese che ha partecipato alle mobilitazioni dichiarando ufficialmente molti appuntamenti, NdT], o qualcosa del genere. La soggettività è un modo di dire io e dire noi, indissociabilmente ancorché distintamente. Non si tratta quindi di un “per quel che mi riguarda” individuale o gregario, ma dell’imperativo centrale di non rinunciare mai alla decisione, a qualsiasi livello. Ciò significa: assicurarsi che il significato di ciò che stiamo facendo sia evidente, appaia e traspiri. Formularlo costi quel che costi, correre il rischio dell’incomprensione, del conflitto, piuttosto che crogiolarsi, come tutto ci spinge a fare, nella confusione e/o nella tiepidezza.
Oggi non è più necessario oscillare tra la “concretezza” delle lotte a compartimenti stagni e l’ “astrazione” della rivoluzione. Non è più tempo nemmeno di parlare di insurrezione (tutti sanno che è una possibilità del presente, il suo spessore, e non un orizzonte lontano). Fuori moda, la rivoluzione è all’ordine del giorno.
Significa in fondo l’insurrezione che vogliamo, che possiamo volere, contro tutti quelli che rifiutiamo o che respingiamo. Ogni lotta deve scegliere, contemporaneamente al suo percorso, il terreno che la rende possibile, lo spazio di discussione in cui cresce e che cerca di rafforzare. È il dibattito rivoluzionario, questo campo strategico, che deve essere reso potente, senza indugio. Aggregare le forze non è sufficiente, dobbiamo sgombrare un nuovo terreno di intelligibilità e assumere la rottura con l’ordine democratico. La paura della scissione, contrariamente a quanto spesso si dice, rafforza la possibilità fascista, dandole la possibilità di incarnare la grande scissione. Perché iniziare da perdenti? Perché scommettere sull’impossibilità, in quest’epoca, di aggregare le forze in una modalità, un linguaggio e una prospettiva rivoluzionari? È prendere la gente per scema. Si ritiene che i discorsi triti e rilucidati siano i più desiderabili. È condannare i disertori a non sapere a cosa si uniscono quando disertano, è incoraggiarli a ripiegare sull’ “etica”, sullo stile di vita, sull’unità familiare, sull’individuo come centro di gravità – la depoliticizzazione. La questione non è la mancanza di radicalità diffusa, ma la mancanza di idee, di parole, di tensioni, di ostinazione, di pazienza, di “spazi” organizzativi che ci facciano uscire dall’analfabetismo rivoluzionario – perché si tratta di reimparare cosa significa organizzare.
Quelli che hanno dedicato la loro esistenza alla lotta politica non riescono a porsi all’avanguardia del crollo ideologico contemporaneo. Si curano di una sola una cosa: l’ossessione per le questioni sociali, cioè per i settori produttivi. Il movimento contro l’accaparramento privatistico dell’acqua ne è un chiaro esempio. Stiamo lottando contro la monopolizzazione delle acque sotterranee da parte di un’oligarchia contadina. E cosa gli opponiamo? L’idea di bene comune. In altre parole, all’accaparramento privato si oppone un altro accaparramento privato, che ha la ben nota perversione di essere chiamato “pubblico”: lo Stato. L’opposizione tra ciò che è “privato” e ciò che è “per tutti” ha sempre strutturato il governo del mondo, la civiltà. Un bene è una proprietà. Quando si invocano, come è di moda oggi, i commons, con pochissime eccezioni non ci si preoccupa tutto questo dal suo retroterra implicito: il diritto di proprietà. Per quanto cerchiamo di separare teoricamente il “comune” e il “pubblico”, non abbiamo gli strumenti per separarli dal
punto di vista politico. Per strappare l’idea di comune al Diritto, bisogna cominciare a optare per la destituzione e la de-socializzazione delle questioni. La trasformazione dei problemi in settori della società deve essere fermata. Ciò implica una rottura
totale con il programma rivoluzionario degli ultimi due secoli: il socialismo.
Le questioni sociali sono quelle che presuppongono e danno origine all’organizzazione in settori produttivi. Non dobbiamo quindi affrettarci a parlare della questione dell’acqua, ma prima chiederci: deve esistere una questione dell’acqua? Questo elemento, così intimamente legato alla vita, è politicamente costruito come polo di imposizione della sopravvivenza. La questione comunista di
fondo in questo caso sembra potersi formulare così: come fare, come organizzare, non per risolvere la questione dell’acqua, ma per far sì che la questione dell’acqua non sia una questione.
È l’imperativo della destituzione che rende possibile una nuova soggettività rivoluzionaria, un nuovo noi. Da un lato, si propone di rinunciare a tutti i fondamenti oggettivi della politica: classe, genere, razza, sessualità, ma anche territorio; dall’altro, si propone di vedere in questo lutto non una fine, un confinamento nella desoggettivazione, ma l’inizio di qualcos’altro. Non scommettiamo su un unico partito di rivolta, né su un campo plurale e unificato del Bene. Si tratta di pensare e vivere l’iscrizione di posizioni rivoluzionarie chiare e distinte in un campo inarrestabile nel suo divenire ma legato a criteri solidi: l’odio per l’istituzione, la guerra al governo del mondo.

[1] Intensità “bella come l’incontro casuale, sul sedile anteriore di un camion coperto senza telone, di un casco e di una pietra”. (Ouest France, “Ubriaco, si dirige verso l’accampamento degli anti-bacini”, 30 ottobre 2022, articolo riservato agli abbonati).
[2] Abbiamo la risposta pronta a questo, il disprezzo mostrato per il moralismo e per qualsiasi spirito di sistema. Ma è proprio quando non ci si pone più il problema della fermezza ideologica che ci si condanna ad alimentare, per contrappeso, la tentazione moralistica.